Ancora sull'etica e il fotogiornalismo

Sandro Iovine, direttore della rivista Il Fotografo, commentando un mio precedente post "Fotogiornalismo, etica e il premio di Kevin Carter", cita tre fatti concreti per i quali si trova in disaccordo con quanto da me scritto.

I fatti sono riepilogati in tre suoi post (Ma bravo Pellegrini, Cose... strane dal mondo (della fotografia) e Quanto vale un cadavere in galleria), e sono relativi (in sintesi estremissima) il primo all'opportunità di soffermarsi, fotografandolo, sul dolore di una persona prossima alla morte e, gli altri due, all'utilizzo finale di questi scatti.

Sui casi citati non posso che trovarmi d'accordo, ma mi permetto di sottolineare che non tutto il fotogiornalismo ha il gusto per il dettaglio raccontato da Pellegrin:
"Con Scott Anderson del New York Times eravamo corsi sul luogo di un’esplosione: c’era un uomo in terra, si trascinava, era l’obiettivo del primo missile. Appena sono sceso dalla macchina ne è arrivato un secondo. L’esplosione mi ha fatto volare per alcuni metri. Mi sanguinava la testa. Siamo scappati in una stradina laterale. Poi, di colpo, mi sono messo a correre. Sono tornato indietro, ho fotografato quell'uomo. La seconda esplosione gli aveva staccato un braccio, ma respirava ancora. La strada era deserta, siamo rimasti noi due soli per una manciata di secondi. Poi sono corso via di nuovo."
Anzi, a tale proposito vi invito a leggere (o a rileggere) l'articolo di Francesca Micheletti "La scala Richter e la legge di McLurg", pubblicato su Fotografia & Informazione dopo il terremoto del 2005 in Pakistan.

Ineccepibile, invece, l'osservazione che non è etico trasformare certe fotografie di fotogiornalismo in stampe d'arte:
"Ma non accettiamo che immagini di sofferenza nate per documentare, informare di cosa stava accadendo in un determinato luogo chi in quel luogo non poteva recarsi, finiscano per diventare oggetto di mercimonio para artistico. Soprattutto se in esse è raffigurata la sofferenza di qualcuno. Mi chiedo sempre che effetto ci farebbe sapere che qualcuno si è appeso sopra al camino di casa la foto del cadavere di un nostro parente o di un amico…"
Non mi trova d'accordo, invece, l'affermazione:
"Limitiamoci però a smettere di credere che nel mondo odierno (e probabilmente anche il quello passato) il fotoreporter possa assolvere a una funzione salvifica nei confronti del mondo. Le fotografie non hanno quasi mai cambiato gli orientamenti di chi decideva della nostra sorte, figuriamoci se possono farlo oggi."
Poiché mi piace sognare che abbia scritto questa frase influenzato (forse inconsciamente) da quanto da me scritto, mi permetto di replicare che se è forse vero che "le fotografie non hanno quasi mai cambiato gli orientamenti di chi decideva della nostra sorte" (e comunque sottolineerei il "quasi" più e più volte, che non mi pare poco!) non è comunque questo lo scopo del fotogiornalismo, che rimane quello di documentare un fatto con un'immagine e di portarlo a conoscenza di un pubblico più vasto di quello presente sulla scena fotografata.

Ciao
Giovanni

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